Buongiorno e bentrovat@
Oggi voglio condividere una notizia che ha a che fare col paese in cui vivo: il Portogallo. Il parlamento portoghese ha approvato una legge che tutela le donne dalla violenza ostetrica, segnando un passo importante nell’ambito dei diritti umani.
Questa legge, come puoi immaginare, ha creato un ampio dibattito nell’opinione pubblica e tra i professionisti sanitari.
Una legge necessaria: i numeri infatti parlano chiaro, le fonti ufficiali affermano che qui il numero di episiotomie sia il doppio rispetto alla media europea.
Secondo questa legge, “La violenza ostetrica è l’azione fisica e verbale esercitata dagli operatori sanitari sul corpo e sulle procedure dell’area riproduttiva della donna o di altre persone in stato di gravidanza, che si esprime in un trattamento disumanizzato, in un abuso di medicalizzazione o di patologizzazione dei processi naturali, in spregio al regime di protezione nella procreazione medicalmente assistita, gravidanza, parto, nascita e il puerperio previsto dalla sezione II del capo III della legge n. 15/2014, del 21 marzo”.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, sebbene non utilizzi il termine violenza ostetrica, è dal 2014 che parla di abusi e comportamenti irrispettosi nei contesti della nascita e, in generale, della salute riproduttiva femminile.
Secondo l'attivista Mia Negrão, possiamo considerare violento qualsiasi atto fatto senza il consenso della partoriente.
La violenza ostetrica è un argomento molto spinoso; non mi piace utilizzare generalizzazioni, ma vorrei di seguito riportare quattro brevi riflessioni sul fenomeno, nate dalla mia esperienza di madre e di psicologa perinatale.
Primo punto: la sistematicità della violenza
Come tutte le forme di violenza, c’è un aspetto sistemico molto radicato, che va al di là del singolo professionista che può o meno infliggere la violenza (anche i professionisti stessi possono essere vittima della violenza ostetrica, quando costretti a seguire dei protocolli che non condividono, o ad avere ritmi di lavoro disumani). La capacità di ri-pensare le pratiche di nascita diventa difficile da portare avanti quando si fanno turni massacranti, o non si hanno momenti in cui formarsi, in cui aggiornarsi sulle buone pratiche, ma anche confrontarsi sugli aspetti emotivi del proprio lavoro. Va ripensata la relazione medico/professionista sanitario-paziente: la persona incinta infatti può vivere un momento di "fragilità" ormonale ed emotiva, ma continua ad avere capacità di pensare e decidere per sé stessa (anche perché essere incinti non è una malattia!).
Secondo punto: il corpo come lo vedi tu è (purtroppo) diverso da come lo vede un medico
Quando nel lontano 2008 partecipavo ai gruppi Balint all’interno di un progetto di volontariato in ospedale a Roma (lavoravo nel reparto di odontoiatria pediatrica, altri colleghi nei reparti di oncologia pediatrica e oncologia dell’adulto), riflettevamo insieme sulle difese che il personale sanitario generalmente mette in atto per proteggersi dai vissuti dolorosi del proprio lavoro. Il professore ci raccontava quanto una persona ricoverata diventava nel loro racconto medico- tirocinante o medico-infermiere “quel piede amputato”, “quell’ organo malato”, dimenticandosi completamente che quel piede e quell’organo appartenevano ad una persona che ha un proprio vissuto emotivo e che magari sta ascoltando la conversazione (come uno spettatore). Non sto dicendo che tutti agiscano così, ma che è uno dei vari meccanismi di difesa che possono essere messi in atto. Questa oggettificazione purtroppo si vede anche nelle sale parto, soprattutto quando le cose non vanno bene e il risultato (far nascere un bambino sano), seppur importante, rischia di far vedere il corpo della donna come un mero involucro che può ostacolare questo risultato.
Mi chiedo, dove sono le emozioni di tutti i protagonisti?
Terzo punto: il consenso è ancora un concetto non compreso
Un aspetto che merita una riflessione è quello del consenso. Da analista transazionale mi muovo nel mondo col “motto” di Eric Berne: I am Ok, You are Ok. Che significa? Che ogni essere umano merita rispetto e che ogni relazione, inclusa quelle professionali, deve essere improntata sul rispetto (al di là delle gerarchie). Quando invece in una relazione medica io professionista penso di essere più importante, non sento la necessità di coinvolgere te in quello che penso sia per te importante. Io mi sostituisco a te nelle decisioni, quindi penso che sia superfluo chiedere il tuo parere.
Una delle grandi difficoltà delle donne che subiscono la violenza ostetrica non è una gravidanza, parto o puerperio difficile, ma il sentire che il proprio punto di vista non sia stato ascoltato. Si diventa estranee a se stesse, si diventa spettatrici in un momento che dovrebbe essere esclusivamente proprio e personale. Ci si sente scippati di un pezzo importante, e in fondo bastava poco: più ascolto e accoglienza.
Quarto aspetto: la comunicazione è vitale e bisognerebbe che ci fossero più corsi per migliorarla
A mio avviso e secondo la mia esperienza, un buon 70% dei casi di violenza ostetrica sono dovuti ad un difetto comunicativo. Cosa voglio dire? Voglio dire che quel consenso di cui parlo sopra non è un foglio da firmare, ma un vero e proprio processo comunicativo fluido, in cui io come professionista:
- descrivo le procedure, con i pro e i contro
-non giudico le tue scelte
- cerco di tenere a bada il più possibile i miei bias cognitivi, cioè quella deformazione della realtà dovuta alla mia cultura, appartenenza, esperienze di vita.
Se la comunicazione fosse più empatica e accogliente, ma al tempo stesso descrittiva e scientifica, si creerebbe un dialogo più paritario tra due parti importanti. Si colmerebbe quel senso di privazione anche quando le cose non stanno prendendo la piega aspettata (perché questo può succedere, ma non può inficiare tutto!). Una gravidanza, parto o puerperio positivi non sono perfetti. Sono positivi se in queste fasi la donna si sente al centro, col suo corpo e le sue scelte.
Ci sono momenti in cui il medico sente il bisogno di intervenire, ma è tanto importante che lo faccia solo quando è strettamente necessario, senza utilizzare il suo potere e la coercizione per ottenere il consenso. Anche le donne incinte possono rifiutare un trattamento medico, anche salvavita, così come ha stabilito ad esempio l’ACOG nel 2016. Qui ci addentriamo nel campo bioetico, che non è sicuramente una mia area di competenza, ma questo tema ci fa riflettere su come senza dialogo e comunicazione non sia possibile NASCERE, anche come MADRE.
Grazie per aver letto, a presto! Come sempre rimango in ascolto.
Giovanna Fiore,
Responsabile Aree Perinatale e Infantile della Psychikós Clinic e creatrice del Progetto Benessere Perinatale